Durante l’infanzia, fra le tante amicizie, frequentai due bambine, entrambe figlie uniche, molto diverse fra loro e delle quali mi colpirono alcuni atteggiamenti.

La prima m’invitò a casa sua un paio di pomeriggi a giocare. I genitori erano sempre al lavoro e lei stava spesso con la zia in una deliziosa casetta di quartiere. Dopo qualche minuto in cortile a guardarmi e a chiedermi a cosa potessimo giocare, nonostante la meravigliosa miriade di giochi all’aperto fra i quali si poteva scegliere all’epoca e che oggi postiamo con nostalgia sui social, lei decise che non c’era nulla da fare e mi portò in camera sua per giocare con le bambole.

Entrai nella sua cameretta e m’illuminai.

Sopra una mensola, come in passerella, erano posizionate, l’una a fianco dell’altra, tutte le Barbies da collezione, anno dopo anno. Per me, la cui famiglia Barbies era semplicemente composta da Barbie sposa con Ken, Barbie tennista con Skipper e da Big Gim da fidanzare alla tennista con corpino arancio e gonnella bianca (più brutto e più basso di lei se paragonato a Ken, ma loro si amavano), vedere quella collezione fu entusiasmante e glielo manifestai eccitata. La sua mancanza di gioia nel rispondermi che gliele avevano regalate i genitori, ma che a lei non poteva fregargliene di meno perché intanto loro non c’erano mai, mi colpì e mi rattristò. Giocammo un paio d’ore sommerse di bambole e giocattoli d’ogni tipo, tutto senza sorrisi, con tanti silenzi, tanta noia e tante risposte maleducate alla zia, che m’imbarazzarono molto.

Con la seconda bambina, alla quale ripenso spesso con affetto, estremamente intelligente ed infinitamente studiosa, condivisi la passione per i giochi in scatola, visto che non le era permesso di uscire più di tanto che “…fuori ci si ammala ed è pericoloso…”.

La sua casa, che tra specchi e pavimenti non c’era differenza, era tutta pattine in feltro sull’uscio e strofinacci bianchi di cotone per sedersi senza rovinare il divano. Che per una come me che passava i pomeriggi con gli amici tra fossi e fienili, significava lavarsi le ginocchia ottanta volte prima di andare da lei.

Sua madre era sempre gentile ed affettuosa nei miei confronti. Mi adorava. Come adorava i capelli della figlia che pettinava in continuazione. Mentre, a tutte le sue Barbies, la bambina tagliava i capelli a spazzola e metteva il rossetto rosso. Forse in una sorta di ribellione casalinga.

Andavamo molto d’accordo, pur essendo completamente diverse. L’unica volta che lei si arrabbiò con me, fu quando alzai un bicchiere per liberare delle mosche che aveva intrappolato per vedere quanto tempo sarebbero vissute senz’aria. La stessa aria che veniva strozzata dal tappo di sughero che sua madre metteva nel rubinetto del bagno, per evitare che cadessero gocce nella vasca.

Entrambe le bambine avevano gli occhi tristi.

Entrambe per questioni di distanze.

Troppo distanti per lavoro i genitori dell’una.

Troppo vicini e soffocanti i genitori dell’altra.

Mia madre ha saputo crescermi alla giusta distanza. Quella che ti ama mentre ti mette le ali e ti invita a rialzarti se inciampi. Quella che ti tiene in braccio da neonata, perché il bisogno d’amore non può essere un vizio. Quella che piangere fa bene all’anima ma frignare per nulla non serve a nessuno.

Ho potuto sperimentare le distanze del litigio, misurando opinioni per strada con gli amici senza adulti protettori fra i piedi. Mi è stato concesso di vivere la fede senza sensi di colpa, imparando a dividere con Dio meriti ed insuccessi, senza sentirmi un automa mossa da chissà quali corde divine.

Mia madre ha sempre riempito la casa di bambini, che c’è un tempo per lo studio ed uno per il gioco. Ha sussurrato alle mie idee di non chiudersi in tanti schemi, che la spontaneità vola sull’ipocrisia. Mi ha insegnato regole comportandosi, senza troppi dettami. Ha saputo incoraggiarmi nella timidezza, che se di guance rosse non si muore, di troppa sicurezza ci si ferisce. Ha fatto del dialogo la regola primaria e della particolarità d’ogni figlio la propria forza interiore, raccomandando ad ognuno di tener sempre fede al proprio essere, nel rispetto altrui.

Ho capito fin da subito che di faccia ne abbiamo un sola e che se ne mostri due ti annulli dentro. E se la faccia interiore è quella con la quale farai i conti tutta la vita, ringrazio mia madre di aver contato con me.

Ci sono mille episodi gioiosi che ricordo, udella mia infanzia, uno su tutti quando mi addormentavo sul divano tra le braccia di mia madre e mi risvegliavo con il borbottio della moka sul fuoco. La giusta distanza si trasmette così, tra amore e fiducia, in una sorta di gioco GOING dove ti rimandi la palla ovale arancio allargando le corde. E non fa niente se a volte allarghi le manopole con troppa forza e dentro quella palla ci stanno anche i momenti no, le litigate ed i telefoni riattaccati di rabbia. Perché se ti hanno insegnato a misurare la forza, aggiusterai il tiro successivo. Ed ogni volta che le tue narici accoglieranno l’aroma di caffè, ricorderai che l’amore può tutto.

Sempre.

Ringraziarti è d’obbligo, mamma.

Oggi sarà pure la tua festa, resta indelebile il fatto che io ti ami ogni giorno.

Fino all’infinito.

FOTO: Claudia Brugna.

POESIA DI COPERTINA: “Le scarpe già corte”, Barbamilù, Barbamilà, LibroitalianoWorld,2001.