Mi sveglio a gradi. La pesantezza del mio sonno, che definire di piombo è poca cosa, si alleggerisce a tappe, in tre passaggi di staffetta da Morfeo a Dioniso. La prima suonata ha voce d’anatra, giusto per concedersi un risveglio naturale. Dieci minuti dopo, la seconda mi risveglia a suon di blues, che alzare le palpebre a ritmo di musica non ha prezzo. L’ultima, devastante e definitiva, mi richiama all’appello con un’allarmante sirena antincendio.

Mia figlia si ripiglia in sette tappe. Avendo ereditato da sua madre, che sarei io, la predisposizione al letargo notturno in quantità simile alla distrazione che caratterizza entrambe, preferisce non rischiare e dotare ogni tappa di sirena d’emergenza.

È la prima ad alzarsi. La sua ultima sirena corrisponde alla mia prima. Sobbalza lei, starnazzo io. Spalpebro io, s’inciabatta lei. Sobbalzo io, lei è già vestita. L’indipendenza maturata alle superiori fa bene ad entrambe.

Mi sveglio dolcemente a suon di passi, quelli che lei percorre dalla camera al bagno, dal bagno alla cucina, dalla cucina allo specchio. Mi sveglio a suon di trucco, quando il mascara e lo spazzolino da denti si contendono i minuti.

– Mamma, sono troppo truccata? –

– No, va bene così, magari non esagerare con il correttore! –

(In adolescenza ogni imperfezione sul viso viene vissuta come un mostro da combattere)

Mi sveglio a suon di vapore, quello che esce dalla stirella.

– Mamma, mi stiri la camicetta a righe? –

– Non potevi dirmelo ieri sera? –

– Non pensavo di metterla oggi, ho cambiato idea –

(A quindici anni, il repentino cambio di idee sull’abbigliamento raggiunge livelli da record)

Mi sveglio sui “Mamma vado, ci vediamo oggi, ciao, ti voglio bene”, un’occhiatina allo specchio e giù per le scale.

La guardo uscire dal cancellino appoggiata alla finestra. Mi sembra di guardarla ogni anno da più vicino, ma in realtà sono i suoi centimetri ad essersi allungati.

Mi sveglio con i passi di mio figlio, quella corsa inebetita sul filo dell’alba che precede il repentino infilarsi tra le coperte matrimoniali. È un gioco di abbracci e di strette sorridenti che mi godo appieno, le ginocchia nelle ginocchia, le braccia a doppio cerchio e le dita intrecciate, in un meraviglioso tutt’uno pancia-schiena di passo opposto alle pressanti teorie “anti lettone”.

Lo sveglio sui suoi “Mamma ancora un attimo” e gli attimi diventano minuti. Ci svegliamo sull’aroma della colazione a suon di biscotti inzuppati e di “fai in fretta che è tardi” girati con lo zucchero.

Lo incalzo sui “mamma mettimi nello zaino il fidget spinner per favore, quello verde, vado in bagno e arrivo!”

Lo lascio nel parcheggio della scuola e lo guardo entrare. Ogni anno mi sembra di guardarlo un po’ più dal basso ma in realtà sono i suoi centimetri ad essere cresciuti.

Guardo dall’alto lei e dal basso lui.

E mi si unisce il cuore.

È una questione di passi, di contatti e di punti di vista.

Fra qualche anno i passi di lei saranno più decisi e distanti e gli abbracci di lui si vestiranno di passione per un’altra donna.

C’è una sorta di fantasma interiore che mi fa ipotizzare come saranno i silenzi. Come sarà quel cancellino che si aprirà con meno frequenza e come si girerà lo zucchero con calma nella tazza. Di che suono sarà la sveglia e di quante staffette avrà bisogno Morfeo. Lo penso sgomitata sul davanzale della finestra, con tristezza goliardica e cosciente, consapevole di essermi presa tutti gli abbracci possibili e di aver dato tutti i baci a disposizione. E qualche ceffone truffaldino se necessario.

Mi chiedo come sarà l’assenza di voci sovrapposte, l’ordine costante degli ambienti, il minor numero di abiti negli armadi, di libri negli zaini, di scarpe da calcio da asciugare per tempo o di mascara sparsi per il bagno. Ci sorriderò e mi disabituerò con nostalgia alle abitudini.

Tra le mille vite, riderò della mitica ammucchiata serale. Mezz’oretta di confusione prenotturna uno a fianco dell’altra. Tutti immersi in qualcosa. Mio marito e mio figlio in trasmissioni di ristoranti ed architettura, mia figlia in lettura ed io schiacciata in mezzo come una sardina alla ricerca del mare. Ma con il sole dentro.

Mi sono sempre chiesta cosa pensasse il quinto componente del lettone bistrattato: il nostro cane. Talvolta lo guardo dormire mentre sussulta nel sonno e mi chiedo se se lo sarebbe mai aspettato di arrivare in una famiglia così, lontana anni luce dal Mulino Bianco ma molto vicina ai suoi biscotti. Una famiglia ad incastro, mi piace definirla, dove fra sgomitate tra le lenzuola, abbracci, rimproveri, risate, discussioni, cancelli aperti e chiusi, corse, orari ed impegni, tutto sommato, un passo avanti ed uno indietro, ciascuno ha trovato la propria dimensione.