Martedì è serata toast. Cotto e fontina compaiono magicamente in frigorifero il mattino e scompaiono in un volo poco dopo il tramonto. Lavorando nella ristorazione e cucinando per lavoro, nel giorno di chiusura, pan tostato e farcitura è la soluzione ottimale che respinge la deformazione professionale oltre le quattro mura. Latte e acqua, trovano compagnia per un giorno a settimana; solitari i rimanenti sei, bivaccano liberi sui ripiani interni, strizzando l’occhio al brodo (rigorosamente in gelatina) che li guarda dall’alto, abile danzatore sull’andazzo della porta in ogni sua apertura e chiusura. Buio e luce. Luce e buio. Che se non fosse per lo scoppiettio dei cubetti ghiacciati del freezer nel reparto di sopra, sarebbe un silenzio troppo freddo ed ingiusto per ogni frigor che si rispetti.

Intanto sul divano si accoppiano coperte e cuscini, ciabatte e calzettoni. I capelli bagnati reclamano un phon ma si adattano ad un “torchon salviettoso” abbottonato sulla fronte, appena più su di dove si danno i baci innocenti, quelli che magicamente rilevano anche la febbre. I vassoi da letto rubano funzioni al tavolo, le posate stanno in stand by ed i bicchieri pure. Temporaneamente sostituiti da lattine e bottigliette, in una spartanità “coscia a coscia” tremendamente accogliente. Si respira libertà. Tra una discussione e l’altra su chi curerà la tostatura e chi servirà al vassoio.

Nove volte su dieci, il tramonto è già passato da un pezzo. Serate nelle quali in stand by vanno anche gli orologi. Con lancette e minuti a seguito. Così, in una dimensione surreale, al di fuori di qualsiasi canone, semplicemente intersecata ai bisogni primordiali di affetti ovattati ed appetiti sfiziosi.

Al “periodo toast”, si sono spesso alternate serate gustosamente monotematiche. Il raviolo alla zucca è stato l’indiscutibile protagonista di numerosi martedì casalinghi. Vestito di burro e scaglie di parmigiano, ci è entrato nel cuore e nel palato a tal punto che una sera, mia figlia, se n’è uscita serafica con la frase:

– Mamma, quando non ci sarai più e mangerò i ravioli alla zucca, mi verrai sempre in mente –

Credo che in quel preciso istante, il raviolo nella mia bocca si sia arenato sull’epiglittode e che la mia gola abbia di colpo imparato tutti i nodi del marinaio dei bastoncini di merluzzo.

L’ha affermato così, soave e gentile, con quella tenerezza “strong” che ti fa sentire importante in un pezzo d’impasto, mischiato a formaggio e verdura. L’ha pronunciato a fil di labbra, con la nonchalance tipica degli animi senza filtri, veri e sinceri, stupendamente trasparenti come le lacrime che ho cacciato di tutta fretta in gola con raviolo and company, fingendo una falsa padronanza quando invece avrei voluto lasciarmi andare platealmente come in un film, inumidendo fazzoletti e sfiatando sfinita di commozione. Sono quelle dichiarazioni d’amore che non ti aspetti, accidenti, ma l’amore d’altronde non s’insegna, si trasmette e si tramanda.

Circa tre settimane fa, mentre preparo la linea di cucina per la serata, ascoltando Mango ed azzardando un ballo, la bimba della zucca amorosa, che nel frattempo si è fatta liceale, mi chiede di spegnere la musica perché non riesce a studiare.

Girando su me stessa a suon di “Monna Lisa”, me ne esco serafica con la frase:

– Ma si, dai, quando non ci sarò più, mi ricorderai felice e ballerina –

Glielo dico così, soave e gentile, con quella tenerezza “strong” che vorrebbe portarla in un palmo di mano e sollevarla al sole, pronunciandolo a fil di labbra, con la nonchalance tipica degli animi canterini, caparbiamente liberi e vivaci.

– Mamma, ma che brutta cosa che mi dici! –

Se capita il discorso, conversiamo delle assenze con la giusta leggiadria, senza soffermarcisi troppo, in quella toccata e fuga che rende gli argomenti meno cupi e più leggeri. Ma doverosi. Da pendendere sotto braccio con coraggio e lasciare all’arembaggio poco dopo. Tenendosi la felicità.

In un passo di danza felpato, con la grazia che si conviene a tre decine e nove unità sulle mie calzature tutt’altro che minuscole, la raggiungo e la cingo alla vita. Lei mi abbraccia le braccia e siamo in sublime sintonia, in uno di quegli attimi pirandelliani nei quali le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu*

Mi rendo conto che per sussurrarle all’orecchio, dato che non sempre la lunghezza del piede è direttamente proporzionale all’altezza, devo alzare leggermente il viso e, donando goliardia alle mie parole per sdrammatizzare, le tendo una similitudine alla sua frase di anni prima. Si stupisce e non rammenta di avermela detta, ricordando invece le nostre cenette intime di famiglia a base di zucca.

Mi scatta la magia. Per la sua capacità di trarre bellezza da discorsi malinconici che è naturale affrontare. E per l’attitudine a trattenere le positività come l’oro nel setaccio. Che affiora dalla sabbia ma sa lasciarla cadere per splendere di suo.

Percepisco che le sensazioni sono tutto ciò che conta davvero. Capisco che, in famiglia, conversare di assenze non può divenire un tabù, per lasciarne gestione casuale a balene blu volanti o a devastanti racconti di cronaca famelici di share. Mi rendo conto che delle persone resteranno le sintonie, che le emozioni non dette peseranno come macigni se non si potranno più dire e che gli abbracci non dati ci stringeranno di rimpianti se non si potranno più dare. 

E allora Caron, non ti crucciare**, se io e la ragazza della zucca doniamo riso a discorsi seri e la prendiamo così, la vita, tra un passo di danza ed un abbraccio a pari altezze. O quasi. Se sorridiamo alla serietà dei nostri discorsi, lasciando a te e all’Acheronte negatività, zavorre e peccati originali. E se ci fotografiamo dall’alto i piedi che, fra l’una e l’altra, sono quasi ottanta unità. 

E meno male che c’è Halloween a stemperare il tutto, con le sue zucche vuote e il suo schernir quella dipartita che si vorrebbe zittire. Con le sue maschere esorcizzanti ed i suoi fantasmi scacciapensieri. Con quel dolcetto o scherzetto che rende liete le bocche dei bimbi e ne delizia i palati golosi. Che poi, a conti fatti, tutto ciò che resta realmente è quello che non ci si è dimenticati di darsi e di dirsi.

(*Pirandello, IL FU MATTIA PASCAL)
(**Dante Alighieri, LA DIVINA COMMEDIA)