Ballerina di strada e cantante da salotto.

 Lei.

Di quelle che invece d’infilar coralli tessevano vocaboli. E ci ricamava sopra fantasie d’ogni genere, colpevoli soltanto d’esserle apparse in sogno.

Che le storie si dovevano scriver subito.

Per non perderle.

Anche se lei si perdeva ogni giorno. Si faceva strada fra personaggi che le si aggrappavano agli occhi combattendo Morfeo. Ed era una battaglia dura che le rendeva il viso espressivo ma stanco, di quella stanchezza che in lui divenne splendore.

Le campagne ne accoglievano il passo, la musica ne assorbiva l’essere.

Era non essendoci.

Si sentiva non parlando.

Si ascoltava scrivendo.

Arrivava sempre, in qualche modo.

La realtà le appariva piena.

La donna che stendeva i panni le riempiva il cuore. Perchè si potevano amare, i propri panni, stendendoli a suon di carezze. Così come la pianta piegata al sole, si amava a tal punto da tentar l’egoismo. Quello che ti fa tendere verso colui che t’illumina e ti fa splendere da dentro.

Erano realtà invisibili, concesse a pochi animi fortunati. Era un plasmarsi alla felicità con tutta se stessa.

Fuori dal mondo ma in un mondo più bello.

Ed in quel mondo entrò lui.

Lui.

Sbucciato negli anni come un frutto gentile ed addentato da iene senza grazia. Lui che però la grazia se l’era tenuta ben stretta, ricucendosi in una pelle dura, di quelle che sembrano legno e vene intrecciati, che ti verrebbe da bussargli al petto per chiedergli di entrare.

In punta di piedi, togliendosi le scarpe per non far rumore.

Su quel cuore in cui mille strumenti avevano suonato, sbagliando accordi e stonando canzoni.

Lui, che mischiava parole per professione, tirando le fila di spettacoli altrui e burattinando se stesso a fil di timidezza.

Inciamparono l’un nell’altra.

Il timido nella svampita.

Il sorriso di lei nelle fossette di lui.

Furono sorprese inaspettate.

Si chiesero permesso a vicenda e si scrutarono garbati. Di quella delicatezza rara e preziosa. S’impreziosirono a loro insaputa senza neppure conoscersi, sconoscendosi nel tempo e spogliandosi di parole. Affezionandosi lentamente. Avvicinandosi diffidenti. A passo di danza lei. Con fiuto selvatico lui.

Si amarono a loro insaputa. Di un amore non fisico. Non spirituale. Un amore semplice. Talmente semplice che amore non era.

Se lo questionarono fra scherzi, formule matematiche e risate. A suon di porte socchiuse, finestre spalancate e tetti scoperchiati.

Non riuscirono ad amarsi.

Non ebbero il coraggio di prendersi per mano e camminare insieme, per un piccolo tratto.

Rinunciarono alla magia e soffocarono i sensi.

Richiusero le porte.

Agirono d’intelletto.

Astenendosi dall’intrecciarsi le dita ed accarezzarsi il cuore.

Proteggendosi ovunque.

Convinti che proteggersi dalla passione possa far meno male.

Si amarono da far schifo senza amarsi davvero.

E senza mai parlarsi.

Arrivarono sul ciglio del burrone e decisero di non cadere perché, in fondo, non farsi del male era la scelta più comoda.

Peccarono d’inerzia e della stessa s’abbuffarono.

Perché non è facile amarsi un solo attimo.

È più complicato che amarsi una vita intera.

Non è semplice azzerarsi l’un l’altra e ritornare a contare di assenze.

Ci si annienta amandosi.

Ci si sciupa sfregandosi la pelle.

Ci si commuove godendo l’un dell’altra.

E ci si piange addosso dandosi piacere.

Un piacere unico, travolgente, intenso.

Ma terribilmente doloroso.

Di quel dolore subdolo, che ti strizza le viscere e ti annebbia la mente.

Ma che ti rende vivo.

Che ti fa funambolo e poi ti spinge di sotto.

Ma che ti mette le ali.

Che se non indossate, sfarfallerebbero a vita.

E si starebbe male comunque.

Da cani.

Pur non essendosi amati abbastanza.

(PARTE SINISTRA DELLA FOTO: quadro di Paola Geranio)