Ho tappato il naso con le dita e mi sono accucciata nel mare.

Non m’è mai riuscito d’immergermi senza premermi le narici. Solitamente faccio parte della schiera di persone che si tuffano nella maniera più ridicola, da sedute, se a bordo piscina, a passi lenti intersecando onde, se al mare, con quel freddoloso spingersi in avanti che porta il corpo a cambiar elemento. Dall’aria all’acqua in un battibaleno. Nel tuffo classico invece no. Lì si va di leggiadria. Nella misura in cui è concesso di averne. Lo stile è un’altra cosa. Leggiadri si nasce. Stilosi si diventa. La classicità del mio tuffo è a metà strada fra la grazia e lo stile, possedendo il minimo di quanto basta della prima ed uno Zero assoluto del secondo. Non son nuotatrice di professione. Ma nuoto nella vita. Che mi piace osservare sgranando gli occhi. Come amo spalancarli sotto le onde, ma ci entra il sale. Mi son sempre chiesta come facciano a non bruciare gli occhi ai pesci, loro, che gli occhi non li chiudono mai.

Poi ho letto un libro, I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI, di Erri De Luca.

Mentre bacio amo guardare.

È che quando guardo troppo da vicino mi si attorcigliano gli occhi e vi adagio quindi le palpebre. Ma non possiedo squame e l’emozione mi passa nella pelle diretta, elettrizzandomi a dismisura. Senza difese. Come se poi dall’Amore ci si dovesse difendere. Ho sempre pensato all’Amore come ad una matrioska, ad un piccolo seme che evolve nell’apertura della bambola seguente. Capita che gli amori finiscano, richiudendo le bambole su se stesse. Che poi, se ci si richiude alla rinfusa, ne consegue un infinito rigirarsi affinché le proprie immagini interiori ricombacino, altrimenti sai che casino riaprirsi divergenti e scompigliati.

Si difende invece dal proprio fisico, Erri De Luca, nel libro in cui rievoca il decimo anno della sua vita, fra acqua e cielo, in terra napoletana. Lo stesso anno in cui egli aggiunge il suo primo Zero all’età, quando la quinta decade del ventesimo secolo si fa sesta con il medesimo tondo numerico. Vola troppo veloce la sua mente, ingabbiandosi “in un corpo di marmocchio inceppato delle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori”, nella difficoltà dell’aprire la matrioska successiva.

Son cresciuta a porte aperte e carezze abbondanti.

Pettinata di dolcezza ed intrecciata di libertà. Di ginocchia sporche e terra sotto le unghie da sciogliere nel bagno della sera. Che una parte di felicità se ne andava di colpo nel vortice originatosi togliendo il tappo e lasciando appiccicate alle pareti della vasca tutte le storie del giorno appena trascorso, che mia madre raccoglieva in una spugna. Potessero parlare, tante spugne, racconterebbero di risate e spensierati giochi. Come quelle naturali, che narrano di delicatezza sulla pelle velina dei neonati. Spiace quasi strizzarle, dal tanto Amore che vi si assorbe dentro. Amor che vien dal mare.

Come l’Amor di quella ragazzina che a De Luca bussa al cuore, a fil di sabbia. Lei, amante ed esperta dei comportamemti animali, lo coglie impacciato sulla spiaggia leggendone il profondo in un istante e risolvendolo com’egli risolve i rebus dell’enigmistica. A lui, che del verbo Amare ne conosce solo il “traffico nei libri”, limitandosi a recitarlo in “tempi e modi dell’amare latino… Un dolciume obbligatorio indifferente alla pasticceria”. Lo scotta e poi lo scoppia, lei, quel suo Amore, bucandolo come “le bolle d’acqua, da bucare con l’ago” e avvolgendone l’olfatto “d’unto di mandorla che usava a protezione”, che De Luca sa gettare nelle narici del lettore con la maestria tipica del narratore evocativo.

Difficilmente scelgo un libro.

Girovagando in libreria, so che da qualche angolo di scaffale sarà lui a lui scegliere me. Un primissimo sguardo fra di noi sarà il primo contatto. Seguirà la lettura delle prime righe, la misura dei caratteri, il profumo e la consistenza della carta. Frasi che colpiscono all’istante, parole non sovrapposte, fragranza di stampa antica e pagine spesse, c’innamoreranno. Non importa che sia o meno fra le novità, perché renderà nuovo il mio pensiero e preziosa la mia libreria interiore. È un prendersi per mano e uno sfogliarsi a vicenda.

Lo tenne per mano sott’acqua, la ragazzina, l’Erri d’allora. Lo colse di sorpresa leggendone le prime emozioni, la misura degli occhi, il profumo e la consistenza della pelle. Si sconobbero sull’attimo, sovrapponendosi i palmi con gesti antichi ed emozioni spesse. Rendendo preziosi i loro sentimenti.

Mantenendosi.

“Mantenere, il mio verbo preferito, era successo. Come fa a saperlo? Pensai e mi risposi: lo sa e basta. Non avevo toccato niente di così liscio fino allora. Ora so neanche fino ad oggi. Glielo dissi, che il suo palmo di mano era meglio del cavo di conchiglia, mentre risalivamo a riva staccati. ‘Lo sai che hai detto una frase d’amore?’ disse avviandosi verso l’ombrellone. Una frase d’amore? Neanche so cos’è, che le è venuto in mente? Ne sa più di me per via degli animali, ma si è sbagliata. Ho detto una frase di stupore. Il tatto è l’ultimo dei sensi ai quali sto attento. Eppure è il più diffuso, non sta in un organo solo come gli altri quattro, ma sparso in tutto il corpo. Mi guardai la mano, piccola e tozza e pure un poco ruvida. Chissà cosa avrà sentito nella sua. Non potevo chiedere, poteva essere per sbaglio una domanda d’amore.”

Faccio parte della generazione dei litigi autarchici.

Noi ragazzi si litigava e si risolveva. Ci si azzuffava e ci si ripigliava. Quasi fosse una bottega del litigio. Un intimo luogo immaginario in cui prendersi le misure, limarsi, riassemblarsi alla bene meglio. Un approcciarsi alla vita in maniera artigianale, costruendosi dentro e fuori, pezzo per pezzo, con manualità di pelle e bricolage di pensiero. L’adulto era presenza nei racconti della sera. Non c’era brama di farsi difendere, la difesa dei “grandi” era sinonimo di libertà mutilata. E noi, la libertà, volevamo bercela da soli.

Se la beve tutta d’un sorso e se la gioca da sé, il De Luca in fase di crescita, la libertà. La pone a servizio di quel corpo ch’egli percepisce come un vestito troppo stretto e si fa sbottonare a suon di cazzotti da un trio di codardi. Apre la sua matrioska. Senza star a pensar più di tanto a come ricombaciarsi i bordi. Esce da se stesso e vi rientra cresciuto, ridefinito e scartavetrato da una certezza che si dirada negli anni.

“Non posso riconoscermi in quel bambino che non si difende. Il suo pensiero ostinato di voler aprire una breccia nel corpo per far uscire dal bozzolo infantile la forma successiva: doveva essere per lui una certezza. Esistono atti di fede fisica. Scalare una parete in solitaria, senza nessuna protezione, è uno di questi. Ma quel bambino che si lascia abbattere, è andato più lontano dell’adulto che qualche volta è salito slegato sopra il vuoto a quattro zampe fino all’uscita in cima. Quel bambino di dieci anni resta oggi al di fuori della mia portata. Lo posso scrivere, conoscere no.” 

Dagli animali ho imparato a leccarmi le ferite.

Un occhio attento al comportamento faunistico insegna quanto mille volumi. È necessario raccogliersi, nel dolore, entrandovi in letargo e facendone conoscenza profonda. Presentandosi ad esso con una stretta di mano. Ci si lambisce ogni lesione d’animo in maniera delicata ed arcaica, essenziale, senza fretta alcuna. Si rivolge di nuovo lo sguardo verso l’esterno, a passo di lumaca, a cercar coloro che in noi sono stati presenza e tepore, dolcezza e parola, contatto e sorriso.

“Sconchigliandosi”.

Riappare in tutta la sua intensità, la ragazzina che comprende gli animali. Si fa pane per l’anima e cicatrice per le ferite. Atteggiamento risoluto e cuor di mollica. Dona presenza e concretezza. Nutre posando affetto.

Rimantenendosi.

“ ‘Dove eravamo rimasti? Ah sì, alla mano.’ E me la prese posandola tra le sue. Le mie dita stavano tra due madreperle morbide più del pane. Però non lo dissi. ‘Non dovevi fare questo,’ disse indurendo il tono. Aprii la bocca per una risposta, mi posò il dito sopra: ‘Non dire niente. Non esiste in natura che tre maschi si avventino contro uno. Questo è ora un affare di giustizia.” 

E penserà lei a tramar giustizia. Lo farà pensando a come pensa un ippopotamo che “cammina sotto l’acqua e là sotto fa le sue assemblee. Decide sul fondo del fiume quello che deve fare a terra. Là sotto è più leggero e gli vengono le migliori idee.” Tesserà le proprie idee in leggerezza ed astuzia, depositando meraviglia su pagine che si leggono a soffio di vento.

Avventurarsi in questo libro significa spolverarsi dentro. Lontani dalla necessità di trame corpose. Senza alcun bisogno di conoscere i nomi dei personaggi poiché si è personaggi leggendo. Si legge volando, De Luca, percependone l’intensità poetica ed il soave concedersi fra parole. Si ripercorrono decenni  di storia, ci s’immedesima nella ripresa economica del dopoguerra fino alle contestazioni di piazza più significative del secolo appena trascorso. Mai un giudizio inopportuno, mai un pensiero fuori luogo. Ma la capacità narrativa di condurre nei posti descritti e di suscitare le emozioni vissute, sempre discrete, mai egocentriche, posate sul “noi” come concezione dell’essere in virtù di qualcosa all’interno di un gruppo e come inclinazione personale dei caratteri modesti.

“Si diventava molti, si riduceva l’importanza di se stessi. Ho conosciuto allora peso e vastità del pronome noi. Era esperto, non escludeva gli altri, sgomentava i poteri. Portò nelle prigioni le rivolte e i libri, che non c’erano. Sono la più forte contraddizione alle sbarre, i libri. Al prigioniero steso sulla branda spalancano i soffitti.”

Si respira sua madre fra veracità e sostanza. Genitore nella presenza e moglie nell’assenza del marito, volato sulla speranza del sogno americano. Lei, che legge Pratolini e ne confronta il libro al film, donandosi alla lettura ed assorbendone le immagini. Donna di raccomandazioni e cibo, di sguardi amorevoli e profumi di mare, capace di complimenti la cui bellezza ed autenticità si potrebbero dipingere.

“Le sono piaciuti gli scrittori, pure io le sono piaciuto, come scrittore. Quando qualcosa di mio le andava proprio a genio mi diceva: ‘Aro’ si’ asciuto?’, da dove sei uscito. Intendeva: non certo da me. Nessun apprezzamento per me potrà pareggiare questo.”

Tende un ponte sull’assenza, il De Luca di mezzo secolo al sé di una decade. Si ricongiunge al passato nel ricordo del padre, quasi che le mancanze siano in grado di ricombaciarsi sull’interiorità. È un accroccarsi fra “madre” e “seme”, un ritorno all’esser stati che ridona senso e calore all’essere ora. Un percorso a ritroso da foglia a radice per ritornare a fiorire. Annaffiandosi guance e sguardo. Senza nulla chiedere.

“Adesso mi ritrovo le stesse lacrime di cinquant’anni fa. Tornano agli occhi dopo avere viaggiato e fatto parte dell’impianto a goccia degli occhi del mondo. Sono tornate al punto di partenza e le piango da capo. Mi basta la finestra che brucio nel camino, sfasciata da decenni di intemperie. La aprirono e la chiusero mani che non posso più raggiungere. Però le vedo, vene, tendini, forma delle unghie, muoversi nell’aria delle stanze a fare le faccende. Tornano a braccetto le lacrime, due a due, si sporgono dal bordo e si tuffano dalle ciglia sopra i pantaloni, mentre appoggio la fronte sulle mani vuote. Sono le stesse lacrime di bambino, d’impotenza antica. Hanno niente da chiedere e smettono da sole.”

Esiste una sorta d’intimità che sfida silenzi e distanze, posandosi fra cuore e cuore, come a tirare un filo rosso tra un battito e l’altro. È nel rispetto del rapporto genitoriale che l’autore impara il peso delle parole, prendendole a fil di palpitazione e trascrivendole con gentilezza.

“Se la sarebbero sbrigata tra loro la scommessa di una vita e di un posto migliore. Ma non c’era papà e mi toccava prendere la parola. Prenderla è il verbo giusto del suo azzardo.”

Sente altresì la gravità del proprio corpo, svitato all’emozione da una vicinanza di pelle improvvisa ed inaspettata, esplosa e rimbombata nella meraviglia d’un momento, celandosi fra pensieri e desiderio. Come se l’Amore giocasse a rimpiattino. Che si cerca tana per ritrovar respiro.

“Ho abitato il corpo trovandolo già pieno di fantasmi, incubi, tarantelle, orchi e principesse. Lì ho riconosciuti incontrandoli nel fitto del tempo assegnato. La ragazzina no, lei è stata primizia pure per il corpo. Vicino a lei reagiva con slancio delle vertebre, in su verso una crescita improvvisa. Mi accorgevo del corpo, del suo interno, accanto a lei: del battito del sangue a fior di polso, del rumore dell’aria nel naso, del traffico della macchina cuorepolmoni. Accanto al suo corpo esploravo il mio, calato nell’interno, sbatacchiato come il secchio nel pozzo.”

Ci si pone la domanda più bella, fra queste pagine. L’Amore chiede identità. Ardimentoso colui che decida di tentarne l’azzardo descrittivo. L’Amore si prova. Si brama. Si vive. Si consuma. Si dona e si riceve. Ma darne definizione universale ne atrofizza i confini. Chiama libertà, l’Amore. Lo si può chiudere in un libro dal quale il lettore imparerà a volare. Ho volato, con De Luca. Ho piegato angoli alle pagine nei passaggi più preziosi, stropicciatura cartacea che ho sempre ritenuto irriguardosa. I libri andrebbero letti carezzandoli, senza piegatura alcuna. Ma qui mi son vissuta. Lasciandomi un segno.

“Chiamo così degli indizi di una parola che si andava formando: le sue mani che avevano tenuto la mia faccia ferma per il pubblico bacio e la mia ubbidienza, l’effetto di guarigione svelta delle ferite, la scoperta emotiva della bellezza. Capivo all’ondietto quello che succedeva dentro i libri, quando uno si accorge della specialità di un’altra persona e concentra su quella l’esclusiva della sua attenzione. Capivo l’insistenza di isolarsi, starmene in due a parlare  fitto. Non c’entrava per me il desiderio, quell’amore chiudeva con l’infanzia ma non smuoveva ancora nessun muscolo degli abbracci. Scintillava dentro, mi visitava il vuoto e me lo illuminava.”

Nella vita ho Amato e sto Amando.

Tanto.

Nel gerundio dell’Amore, sussurri di parole m’han descritto l’Amarsi come un trasfondersi, uno sconoscersi, un impararsi. Ci si sfoglia come pagine al vento, sopra le convinzioni, oltre le distanze. Si cerca il tassello. L’incastro. Cos’è, dopotutto, l’Amore se non l’insieme di piccoli istanti di felicità? Quel fremersi dentro e tentar di darsi nel timore di perdersi, amando d’un Amor primordiale, quasi fosse stato scritto nella notte dei tempi, reincarnando parole come abbracci e baci come miele. Quel parlarsi denso ed intenso che strugge di dolcezza ed appiccica i palmi. È una questione di mani, forse, l’Amore.

“È cominciato dalla mano, che si è innamorata della tua. Poi si sono innamorate le ferite che si sono messe a guarire alla svelta, la sera che sei venuta in visita e mi hai toccato.” 

Dovessi immaginar quei due ragazzini, animi di libeccio, mi piacerebbe pensarli a dita intrecciate per vicoli a parlarsi fitto fitto, fermandosi di tanto in tanto a baciarsi contro i muri, ridendosi addosso. Mi garberebbe crederli unici al mondo, talmente pieni di vocaboli d’averne a fil di labbra, a fior di pensiero. E capirei come baciano i pesci, ad occhi aperti, come nei sogni, sguazzando vicini e boccheggiando distanti.

 

• Quadro nella foto: “Nel labirinto della mente” (Underwater), di Paola Geranio, 100 x 100, acrilico e smalto su tavola, 2011.