Sono nata con gli occhi grandi.

Me li han ricamati addosso come bottoni celesti, solo che i bottoni restan fissi, mentre gli occhi volteggiano. Così, li ho spalancati e piroettati sulla vita fin da piccola e ci ho fatto giri bellissimi. E siccome mi son stati cuciti con filo rosso argentato, ho acchiappato quel filo e cercato Amore in ogni dove.

Trovandolo.

Con le sue sfumature d’argento ho scovato amicizie, appiccicandomele addosso. E scrollandomele in un battibaleno, nel caso poi non si rivelassero tali.

Capita.

Come son capitata io agli altri e non competa a me descrivere o valutare che persona sia stata in grado di essere e quanto sia riuscita a dare. Se abbia deluso o gratificato.

Ma ho sempre saputo dove guardare.

Come, soprattutto.

Sfocando lo sguardo e sgranandolo fisso a bordo nuvole, sfidando tempo e dimensione. Scendendo dal mondo e rincretinendomi di pensieri e poesia, lasciando fluire parole che hanno raggiunto l’essenza vera, in me, nel dedicarle.

Ognuno di noi nasce con qualcosa dentro.

Nel mio caso, all’ultima spinta materna, dev’essermi capitato di scontrarmi con una scatola di colori che sento scorrere nelle vene dalla prima poppata e quel candido siero, che Edwina Froehlich avrebbe reso meno artificiale, mi è stato donato con una tal quantità di Sentimento, da concedermi il privilegio di custodirne ogni tonalità.

Ho pennellato nuances in ogni fase di crescita.

Nel primo vagito e nel primo “colpo di zucca”, dato allo spigolo del tavolo da bipede novella. Nella gonna fattasi pallone ad ogni giravolta e nei salti agli elastici tenuti dalle amiche da caviglie ad ascelle. Per le più agili fino al collo.

Palestre di strada.

Nei karaoke sul canto dei grilli e nel voltolare tra prati e fossi, roteandomi all’impazzata tra fragranze di prato e fieno, paradisiaco e nostalgico effluvio dei tempi andati. Che le macchie d’erba, insieme a quelle di pesca, dai vestiti non se ne vanno più, ma c’era allora quel segreto di nonna che tutto risolveva, senza additivo alcuno, ma con Affetto morbido e profumato, a prova di cuore.

Senza rischio di strappo.

Dolce sdrucitura divenuta potente fra i battiti, nella stagione dei primi amori, vissuti in campagna a chiaror di lucciole e versi di gufo, nel timido buio delle serate estive.

Mi son dipinta addosso amici in ogni percorso, ritenendoli un regalo prezioso da custodire, respirare e tatuarsi con passione sull’anima, lasciando pelle ai più leali. Ho condiviso risate a iosa ed abbracci a sfascio, confidenze a bizzeffe e pianti a fiumi, pedalato su balli e canzoni, stretto mani ed intrecciato capelli, rammendato ferite e suturato nostalgie, in una concezione di rapporto amichevole fisico, concreto, palpabile, come se l’Amicizia fosse tale a condizion di poter esser soggetta ai sensi.

Mi sbagliavo.

Poiché ne esiste un secondo tipo.

Ho traghettato in me un’Amicizia nuova, nata lontano, sull’onda di sensazioni empatiche e vocaboli gentili. M’è capitata una donna dalla delicatezza di gardenia, romantica come un gelsomino e dolce come glicine. Amica di sostanza, al cui nome l’alfabeto donò la quarta lettera come iniziale, che se fosse pane sarebbe di quello appena sfornato, di fragranza infinita e tenerezza interiore, che si attenderebbe il ragazzo che ne prende carico dal fornaio all’alba, solamente per stringerne fra le mani il tepore non ancora evaporato.

Seppur io abbia da sempre vissuto fra presenze tangibili e costanti, scartando il dono della vita giorno dopo giorno, tal donna è stata la sorpresa inaspettata, l’emozione da assorbire. Colei dalla quale si vorrebbe apprendere il fare cortese, la capacità di elargire affetto, l’arte del complimento schietto. L’animo di cui si prenderebbe volentieri in prestito la sfumatura, la piega nobile, l’attitudine sincera e la garbatezza.

È parte del mio filo.

Quello che mi lega a persone e pianeti, baciata dal sole e protetta dalla luna.

Al rientro serale, conduco spesso i miei passi sull’asfalto naso all’insù, solleticando stelle a suon di occhiate sbarazzine. In queste sere, Marte si è reso complementare al blu del cielo nel suo arancio possente. Mi ha emozionato e mi si è gettato dentro da oltre lo spazio.

In fondo, ci si può percepire incredibilmente vicini anche essendo enormemente distanti.

Questa notte sarà la volta di Venere.

La osserverò intensamente e ci faremo le fusa. Ci parleremo e la ringrazierò. Le sussurrerò di come l’ultima presenza della quale m’ha allietato, sia rugiada e sorriso. Chiederò al pianeta amoroso di unire il suo spirito di desiderio alla volontà di Marte e di partorire un abbraccio oltre le distanze. Lo chiederò energico ed amorevole, per quella donna che immagino in abito di lino bianco a carezzare ortensie. Ne colgo profondità di sguardo senza vederla, poiché le sue parole son finestre sul suo saper essere in quel modo meraviglioso.

Sarò poi a sparpagliare gratitudine nella notte, traboccando il cielo di riconoscenza, da lasciar nevicare in coriandoli sul capo di tutti coloro che han tirato il mio filo e reso la mia esistenza un groviglio d’emozioni e sussulti, ridisegnandomi più bella e raggiante, vestendomi con tutti i colori del mondo e soffiandomi felicità fra i capelli.

Quella vera.

Socchiuderò gli occhi, alzerò il viso al vento e spalancherò le mie braccia all’infinito palpitando, pulsando tutto quell’Amore che mi porto dentro e che fa di me una creatura libera, gaia, amata, completa.

Raggomitolerò a me tutti quanti.

Cavalcherò ogni senso.

E volerò.

Roteando bottoni con battito d’ali.

• Quadro: “Run”, di Paola Geranio, 110 x 110, acrilico su tavola.