Di pietre e piombo, vestiva i propri passi.

Non una lentezza di circospezione, ma il passo greve di meningi appesantite da un lustro di umiliazioni.

Lia, 300 mesi di vita e mille anni sulle spalle, osservava il mondo dal suo verde oculare e respirava vento dai suoi ricci ramati. Era cielo nel cuore con la pioggia dentro, anzi, in alcune giornate grandinava proprio, sfregiando di freddo e ghiaccio petto e meningi.

Era nata nel terzo giorno del mese delle maschere, Lia, dando inizio, con il primo vagito, ad una lunga serie di pianti che il destino le avrebbe riservato, vestendone i primi passi di goliardia dissacrante. Figlia di una madre che l’accudì senz’amarla e di un padre che nemmeno la ritenne degna del proprio cognome, condusse un’esistenza carnevalesca, nel senso più derisorio del termine.

Clelia, la donna che la mise al mondo, s’innamorò giovanissima di un ragazzo del paese. Si frequentarono assiduamente per anni finché, in un pomeriggio di Marzo, lei scoprì che in atmosfera natalizia sarebbe divenuta madre. La sua giovane età non aiutò la comprensione genitoriale, ma Clelia, forte dei suoi diciassette anni, considerò il futuro bimbo un suggello all’amore e, non appena maggiorenne, si sposò con il ragazzo che amava il quale, nel frattempo, divideva i propri pensieri fra lei, il nuovo nato e le vecchie frequentazioni femminili tenute in essere da sempre. Le prime gattonate del pargolo furono contemporanee ad una seconda gravidanza, percepita con meno entusiasmo e con più stanchezza. Clelia la visse in solitudine, lontana dai familiari e trascurata da un marito le cui attenzioni andavano scemando di giorno in giorno. All’ultima spinta di reni si ritrovò, appena diciannovenne, fra un piccolo uomo che da poco si era reso bipede ed un minuscolo frugoletto fra le braccia.

Sola.

Mentalmente, umanamente ed emotivamente, sola.

Il marito era lì, certo, ma interesse e pensieri erano altrove.

Una decade di vita si trascinò fra silenzi, conversazioni obbligate e discorsi vuoti.

Il vuoto si fece reale e fisico il giorno in cui Clelia scoprì che il suo ruolo di madre sarebbe triplicato. Lui la guardò negli occhi, serio come non mai. Abbassò lo sguardo, non essendo abbastanza uomo per poter reggere il suo, si voltò verso i due ragazzi, fece loro un mezzo sorriso e se ne andò. Racchiudendo nel rumore di una porta che sbatte, tutta la codardia e la sterilità d’animo che l’essere più meschino possa arrivare a possedere.

Non tornò mai più.

Ed in quella porta sbattuta si scrisse il destino di Lia.

Accudire non sempre significa amare.

Lia fu nutrita, svezzata, vestita, cresciuta alla bene meglio ma non amata. Mai un sorriso, mai una carezza, mai un complimento. Mai un ceffone, per carità. Ma infinite frasi denigratorie che facevano male come mille schiaffi dati in sola volta. E poi quel peso. Quel senso di colpa tremendo d’esser la causa dell’abbandono del padre, se così era degno d’essere definito, quel nefasto seme gettato in lei dalle parole materne e coltivato a suon d’angherie verbali dai due fratelli, da vittime a carnefici.

Ricordava un unico sorriso materno, una sera, quando spiò la madre dalla porta socchiusa della sua camera da letto, mentre si abbigliava con eleganza per un invito galante, l’unico che ricevette dopo essere stata abbandonata. La osservò meravigliata, mai l’aveva vista tanto bella, capelli raccolti con uno splendido fiocco leggermente brillantato, un velo di trucco che ne distese i tratti ed una lievissima felicità sul volto, un entusiasmo che Lia colse a pelle e che desiderò con tutto il cuore potesse un giorno esser dedicato a lei, dalla sua mamma, quella che amava alla follia e dalla quale bramava affetto come fosse aria da respirare.

Chissà mai che un nuovo compagno avrebbe potuto rasserenarla.

Soffocò in un istante la sua speranza, quando la vide rientrare in nottata. Il viso in lacrime, il rimmel a metà guancia ed il sorriso svanito nel nulla. Aveva reindossato l’espressione di sempre, seria, stanca e disillusa.

Perse il fiocco sulle scale.

Lia aspettò che rientrasse in camera, poi corse a prenderlo e lo tenne tutto per sè. Quel fiocco rappresentava il sorriso che non aveva mai ricevuto in dono.

Trascinò l’infanzia in quel modo, Lia, alternando gioco a lacrime e studio a tristezza, appesantendo gradualmente il proprio ego di grevi zavorre invalidanti.

E di tanta tristezza.

La mancanza d’amore le aveva spostato il centro gravitazionale interno, indebolendone e bilicandone la struttura emozionale, rendendola funambola in sforzo perenne sulla vita, costantemente alla rincorsa di un equilibrio necessario al suo benessere esistenziale.

Ma Lia amava leggere, adorava a tal punto la lettura da riversare desideri e sogni fra le pagine dei suoi libri ed in quello sfogliar di carta profumata, era come se riuscisse a procedere sulla fune senza timor di cadere. D’intelligenza e curiosità sopraffine, trascorreva interi pomeriggi in biblioteca, dove conobbe Maria Luisa, una bibliotecaria, quella che sarebbe divenuta, nel tempo, la sua confidente più cara, colei che al primo segno di vacillamento le sarebbe stata asta e tirante. Per Lia fu come una madre, fu il lato materno mai conosciuto.

Quello dolce, quello incoraggiante, quello amorevole.

Maria Luisa.

Denso, nel suo significato di derivazione ebraico-germanica, “amata” e “combattente”, quel nome così profondo e soave, quasi fosse l’unione di due sfumature caratteriali amabilmente unite dalla voce che le pronuncia.

Maria Luisa era una donna speciale, di quelle che amano in fierezza donandosi dignitosamente, intrecciando percorsi di fedeltà a coloro che hanno scelto come anime affini. Era una donna ch’era impossibile non amare, magnanima oltre misura, generosa nel sentimento e discreta nella parola.

Fertile nell’elogio e sterile nel giudizio.

Equilibrata fra sè stessa ed il mondo esterno.

Funambola dell’essere, sull’esistere.

Di forza esemplare, umiltà encomiabile e dolcezza raffinata.

E di quella dolcezza Lia si sarebbe nutrita per anni, quasi fosse una rinascita di sè attraverso lei, in un’autostima rifertilizzata e reintroiettata con affetto puro e delicatezza estrema.

Fu per l’appunto rientrando da un pomeriggio trascorso nella casa dei libri che incontrò Luciano, un ragazzo appena trasferitosi in paese. Lo conobbe in un atto gentile, essendole caduto il fiocco dai capelli, che lui raccolse restituendoglielo.

La gentilezza la estasiava.

Non avendola vissuta mai, se non grazie a Maria Luisa, ne fu colpita all’istante e con Luciano, un atto cortese dopo l’altro, iniziarono a frequentarsi. Passati pochi mesi, la cortesia di lui lasciò il posto ad una gelosia fuori luogo, soffocante, un senso di possesso estremo che Lia, nonostante Maria Luisa le avesse consigliato di rifletterci, decise d’ignorare maritandosi in tutta fretta non appena raggiunta la maggiore età. Dalla sua casa natale, dalla sua famiglia e da tutto quel “mal-Amore”, voleva fuggire a tutti i costi ed il matrimonio le sembrò la scelta più ovvia, amando un uomo che credeva l’amasse allo stesso modo. Seppur dubbiosa nei confronti di quel modo d’amare assillante e coercitivo, si convinse che negli anni sarebbe cambiato. E poi, sapersi così desiderata, colmava in un certo senso il vuoto lasciato dal padre. Maria Luisa l’aveva intuito e, per lo stesso motivo, la spronò in più occasioni alla riflessione, purtroppo invano.

Si sposarono fra quattro pareti comunali ed un sindaco come parenti, affittando poi un piccolo appartamento nella regione attigua, che mantennero entrambi con lavori saltuari. Finché lui non trovò un lavoro fisso. E per lei fu l’inizio della fine. Le disse di restare a casa e di dedicarsi completamente alle faccende domestiche. Lei si oppose. Uno potente ceffone la mise a tacere. Le fece un male tremendo, non alla guancia, anche, ma soprattutto al cuore, dello stesso dolore che il seme nefasto le aveva provocato negli anni. Le rigermogliò dentro in un battibaleno, avvinghiandosi alle viscere come edera ai muri e divorandola come una pianta carnivora.

Mille pensieri la offuscarono, la fune si piegò e lei riprese a barcollare.

Senz’asta, senz’amore, senza pietà.

Pianse.

In silenzio, ma pianse.

Il bastardo, neppure se ne accorse.

Fu un pianto lungo, che non appena lui uscì lei continuò a singhiozzi, abbracciandosi le ginocchia in posizione fetale e rannicchiandosi sul divano come un cucciolo impaurito. In fondo non chiedeva molto. Voleva solo star bene e desiderava farlo in una persona. Perché star bene nelle persone era la miglior esperienza che lei potesse vivere.

– Sto bene in te. –

– In te mi sento bene. –

Frasi che chiunque vorrebbe poter dire e sentirsi dire. Parole avvolgenti, piene di calore, di riconoscenza amorosa e d’immensità emotiva. E invece queste frasi non arrivavano mai, lasciandola sospesa in un’attesa d’affetto infinita. Lo schiaffo ricevuto stava in punta ad un iceberg colmo di silenzi ed incomprensioni. Mai una conversazione in tranquillità, nessuna possibilità di confronto su argomenti comuni, mai un libro fra le mani da poter condividere, ma, soprattutto, quell’attitudine a smussare qualsiasi entusiasmo, sterilizzando idee, frenando proposte, ridicolizzando passioni.

Spegnendola poco a poco.

Iniziò a pensare che amare con tutta se stessa non fosse sufficiente per essere amata.

Avrebbe voluto chiamare Maria Luisa ma non ne ebbe il coraggio. Temeva di deluderla, per non averle dato retta. Da che si era trasferita s’eran sentite spesso e Lia la rassicurava sempre sul fatto che andasse tutto bene, anzi, di lì a poco si sarebbero dovute incontrare ed allora lei avrebbe trovato la forza di raccontarle tutto. L’ imminente necessità di sentirla, di trovar conforto nel calore della sua voce, la portò comunque a telefonarle il giorno successivo, fingendosi serena. Si sforzò di sorridere, in fondo, in una decina di giorni si sarebbero viste ed avrebbero parlato.

Non si videro mai.

Nel giro di una settimana, obbligata a suon di manate in viso, cambiarono appartamento e numeri di cellulare. Luciano, le disse che quella sua amica bibliotecaria non era una persona da frequentare.

Lia si azzerò.

Fra occhi neri, notti d’amore, se così si potevano ancora definire, al limite della bestialità ed insulti devastanti, le si chiuse a chiave la porta sul mondo. Si rifiutò di uscire, non volle più specchiarsi ma, soprattutto, smise di leggere, di sognare e di sperare.

Nel giro di un mese, sposata da solo un anno, la sua vita scivolò nel peggior baratro.

Cadde dalla fune.

Ne rimise, con titubanza, la punta di un piede cinque anni dopo, in una mattina di primavera, quando scoprì inaspettatamente che le nausee di quei giorni, non erano dovute ai calci in pancia ricevuti periodicamente, ma ad una piccola vita che in lei stava prendendo forma.

Un sussulto.

Un brivido di positività che le percorse ogni millimetro di pelle fino ad illuminarne lo sguardo, spento da secoli. Forse esisteva un Dio e forse Luciano, sapendolo, si sarebbe intenerito ed avrebbe smesso d’insultarla.

Di sicuro non l’avrebbe più picchiata.

Quale uomo arriverebbe mai a percuotere una donna con il proprio figlio in grembo?

Recuperò entusiasmo e la sera, dopo avergli preparato la sua pietanza preferita, gli comunicò, con pacatezza innaturale, quasi timorosa, quella che per lei era la notizia più bella del mondo. Di lì ad un istante, quel mondo si fracassò al muro insieme al piatto lanciato con ira da Luciano.

Lei sobbalzò e mille porte cominciarono a sbatterle dentro.

Corse in cucina e raccolse i cocci piangendo, poi, lavando i piatti, cercò di non annegare in se stessa buttando la mente altrove e capitò con i pensieri in una canzone, “SIGNORA LIA”, che la madre ascoltava sempre e che, probabilmente, le aveva calato il nome sulla testa. “Lava i piatti, asciuga il viso, non ci pensare più, con lui siedi e accendi la tivù”, cantava Baglioni, ma come poteva, come sarebbe riuscita a condividere ancora anche un solo istante di vita con un uomo simile?

Lui le arrivò dietro e le mise una mano sotto la gonna, gliela infilò di prepotenza fra le gambe e la tirò verso di sè con fare primitivo. Lei si oppose, per la prima volta in vita sua, disse:

– NO, ORA BASTA! –

Fu l’inferno.

Le prese fra le mani i ricci ramati, tirandoglieli con forza inaudita e poi, come il peggior fetente sulla faccia della terra, le urtò più volte la faccia contro il bordo del lavandino fino a farla sanguinare, le diede un pugno al collo e la tramortì, sbattendo poi la porta ed andandosene a sfogare i propri istinti animali altrove.

Ma lei stavolta non pianse.

Decise che per quella bestia non avrebbe più versato mezza lacrima.

Restò a terra afflitta e dolorante, ansimando per mezz’ora, poi, con fare incredibilmente dignitoso, si tolse dal viso gran parte del sangue, si rialzò a fatica e, nel giro di un’ora, lavata e cambiata, prese le scale per andarsene. Purtroppo per lei, Luciano rientrò nello stesso momento, concludendo con una spinta sovrumana la sua riprovevole barbarie.

E così, tutto il suo amore grande ruzzolò per scalini insieme al suo bimbo, riportandola nel fondo più fondo, sul pavimento e nel cuore.

Perse il fiocco dai capelli.

E perse il bambino.

Come si può perdere un bambino?

Si può perdere un oggetto, un mazzo di chiavi, un braccialetto, ma un bambino no! Perlomeno a lei no, non doveva succedere di perdere anche quello, l’unica possibilità di amare che le era stata concessa, sì perché lei, quel cucciolo d’uomo, non l’avrebbe semplicemente accudito, L’AVREBBE AMATO, poiché Maria Luisa le aveva gradualmente insegnato ad amare se stessa ed ora lei, questo amore, era pronta a donarlo.

La raschiarono.

Fu emotivamente sradicante.

Parlò con i medici di caduta accidentale, strozzandosi dentro un grido di dolore che la fece roteare in vertigine sul vuoto assoluto, lo stesso vuoto che ora aveva in pancia e che, come in un colpo sordo di porta sbattuta, si concretizzò nelle loro parole quando le comunicarono l’impossibilità futura di poter concepire.

Per sempre.

Lei, mutilata nella vita da numerosi MAI, veniva ora annientata da un SEMPRE.

Ma forse era meglio così, perché nascere nel mal-Amore, com’era capitato a lei, gettava un sapore amaro nelle vene e nonostante l’affetto immenso con il quale avrebbe cresciuto quel figlio, i suoi occhi d’infante avrebbero assimilato immagini di violenza che nessuno dovrebbe vedere mai.

Allettata e rassegnata, volse l’opacità del suo sguardo all’infermiera, che l’avvisava d’una visita. Non l’ascoltò nemmeno, rigirandosi d’inerzia verso la finestra.

– Ho trovato questo fiocco sulle scale. Vorrei rimettertelo fra i capelli. –

QUELLA VOCE!

Le arrivò dritta al cuore e lo riempì a tal punto da farla scoppiare.

Attese un attimo a voltarsi.

Incrociare l’amorevolezza di uno sguardo dopo anni di soprusi, esplodeva in lei una sensazione contrastante.

Sussurrò senza girarsi.

– Maria Luisa… –

Iniziò a piangere sommessamente, accostando un silenzio tale al pianto da far urlare tutto il suo dolore. Maria Luisa glielo diceva da sempre che piangere serve a non far incrostar le lacrime dentro, che poi fan calcare sull’anima. La lasciò lacrimare per svariati minuti, poi s’avvicinò, la voltò delicatamente, le mise il fiocco fra i capelli e l’abbracciò con fare morbido ed avvolgente.

Gli abbracci salvano la vita.

Sono quel modo di porsi l’un con l’altro dicendosi che si è l’un per l’altro e quelli veri, quelli importanti, quelli che entrano dentro e scavano per farsi spazio, si percepiscono subito come tali.

E lì, restano per sempre.

Perché, in noi, è il loro posto.

Maria Luisa era la sciarpa. Era il guanto e la berretta di lana. Era quel modo d’abbracciare che si fa pullover e che ti scioglie il ghiaccio dentro.

Lia si fece burro e le si ammorbidì in grembo.

S’intersecarono emozioni e poi, con fare attento, pescarono dall’animo di Lia il coraggio per raccontare la verità sull’accaduto, fra timori, sensi di colpa ed un’autostima rifatta a pezzi che tentava di ricostruirsi.

Maria Luisa fu l’asta ed il tirante. La fune si ritese e funambolarono insieme.

Un passo alla volta.

Fu un percorso lungo e faticoso, con mille cadute e risalite, ma lo portarono avanti armandosi di tenacia e pazienza.

Passarono alcuni anni e Lia, ripiantumata e rifiorita, seppur consapevole di dover convivere con la secchezza di alcuni rami, sentì il desiderio di rivedere la madre. Da anni, il suo amore per lei era nascosto nel meandro più buio della sua mente.

Era giunto il momento di riaprire quella porta.

Maria Luisa l’accompagnò nella sua vecchia dimora e le lasciò sole.

Lia, ormai donna, guardò la madre dallo stesso punto in cui, una vita prima, l’aveva osservata indossare quell’elegante abito da sera.

La scrutò a lungo.

Non la riconobbe se non per la sua espressione terribilmente seria.

Un secolo si era appropriato delle sue sei decadi, smagrendone i tratti in maniera estrema, svuotandone forme e cuore, rastrellandone la chioma, ormai più canuta che ramata, fino a dimezzarne il volume e delineando labirinti di rughe in ogni millimetro di pelle.

Ma gli occhi no.

Quello splendido verde scuro era ancora lo stesso, andava pazientemente rispolverato dalla coltre di sofferenza che l’abbandono del marito e dei figli le avevano accumulato a bordo iride.

Sentì stranamente d’amarla.

Di un amore differente da quello supplichevole che aveva caratterizzato la sua infanzia. Sentiva d’amarla d’un amore maturo che le era concesso di poter provare solamente ora che aveva imparato ad amare se stessa.

Lo stesso amore, adesso, voleva insegnarlo a lei.

L’avvicinò delicatamente, accorgendosi che alcune lacrime ne avevano già lucidato leggermente lo sguardo. Non l’abbracciò immediatamente, non era ancora il momento. Troppi anni, troppe incomprensioni e troppi silenzi, le avevano separate affettivamente ed un abbraccio, per divenir sciarpa, in alcuni casi ha bisogno di tempo. Si limitò quindi ad accarezzarle il volto, in un gesto talmente potente che la scaraventò in un attimo alle sue origini, dalle quali sarebbe ripartita, insieme a lei, invitandola sulla sua fune, provando a mollar l’asta per donargliela.

Con fare estremamente armonioso e garbato, la dolcezza fa miracoli, le spostò un ciuffo di capelli dietro un orecchio, si tolse il fiocco brillantato, le sorrise d’amabilità e le disse:

– Mamma, ho trovato questo fiocco anni fa sulle scale, credo sia tuo. Raccogli i capelli e scopri il tuo bel viso, metti un velo di trucco, indossa il tuo vestito più bello e vieni con me, faremo un’intensa camminata fra parole e pensieri –

Clelia si voltò, tentò un debole sorriso e, tremante, le carezzò una mano.

Fu dapprima titubante nel guardare la figlia, soffermando lo sguardo a mezza altezza nel vuoto, sulle mancanze, a bordo assenza. Respirò profondamente quasi dovesse affrontare una sfida.

Ci vuol del fegato a lasciarsi inondare d’amore quando non lo si prova per molto tempo.

Ci si scompiglia e par di smarrirsi.

Fece un sospiro.

Poi prese coraggio, raccolse quella briciola d’affetto che le era rimasta dentro, le gettò le pupille addosso e sgranò gli occhi a tal punto dentro i suoi che Lia, in un micro secondo, si sentì amata tutta una vita.

Si chiuse una porta su una parte del suo passato, ma stavolta senza sbattere.

Maria Luisa le attendeva al piano di sotto.

Lesse l’ultima pagina di un romanzo.

Mai come in quel giorno, ebbe la sensazione che la vita fosse un susseguirsi di capitoli, una storia sulla quale spostarsi come segnalibri.

• Quadro di Paola Geranio: “Bad boy”, acrilico su tela, 100x90cm, 2018.