Ho imparato la vita, da un ragno.

Ho sciolto stima nella solerzia del tessitore d’eteree trame argentate, nelle geometrie, simmetriche allo spasimo ed urlanti zelo, passione.

Ne ho respirato la calma, il senso primo dell’attesa ormai perduta, lontana, in eco nostalgico sui tempi andati.

L’ho ammirato nel volo su travi mature, nell’artigiano ancorar dei flebili fili di fiato cristallizzato, in gentil posa fra le loro rughe, così possenti, vissute, sagge.

Pareva indossar ali, nel fluttuar soave in quell’aria antica, legnosa, inspirata dagli avi e restituita dai tronchi.

M’ha sussurrato una direzione, il suo capovolgersi, l’affrontar la gravità con passo ovattato, armonioso, celere.

Un invito alla delicatezza, il suo posarsi come piuma, gentile al tatto e stoico sull’operare senza cedere all’ovvio.

Ne ho bramato l’abilità d’intrecciar note sul pentagramma del silenzio, in abile intonazione che di ricamo fa melodia.

L’ho ascoltato.

M’ha parlato d’umiltà, dell’incantevole atmosfera degli angoli rispetto ai palchi, della modestia del retro quinta.

Ha elevato pazienza a qualità suprema, solitudine ad essenza, stasi a riflessione.

Ne ho invidiato l’intersecarsi all’aria, la leggerezza fiera e la determinazione dell’incedere nel rispetto del percorso.

Diffidente nel tatto, dignitoso nella fuga, funambolo nel vuoto.

Mai sfrontato, d’atavica gestualità ed animo discreto.

Sottile nell’essere, spesso nell’esistere.

Custode di segreti.

Scrigno della Natura ch’è Madre d’entrambi.

Fratelli.