Nell’intimo desiderio di decantarne lo sguardo, avrebbe voluto esser vergine.

Una verginità primordiale di parole e percezioni, un tuffo a ritroso nell’oscuro solco spaziale dall’ardore fecondato.

Condusse il pensiero al mutismo ancestrale delle incisioni rupestri e ne colse la voce d’origine. Di gesta primitive prese anelito di vento, filando poesia da soffiare nell’aria.

Smussò spigoli alle pietre tondeggiandole di frasi amorevoli e ne scolpì ruota, sbalzandone al centro l’assenza più greve.

Tondo nostalgico.

Colse il frutto proibito e di polpa fece tempera, pennellando passione ed allontanando serpi. Effigiò l’Amore e ne pose fiducia, sbucciandolo del peccato e conservandone il seme.

Germogliò a felicità suprema.

Sussultando.

Osservò, in quei sussulti.

 Empatizzò con il celeste irideo per poi rannicchiarsi nella cavità pupillare e scender sempre più giù, lì dove si dice che occhi ed anima copulino di riflesso.

Specchiandosi.

Cercò vocaboli in quello specchio, ne sentì il richiamo per risalire al mondo e gettare inchiostro emotivo sul riverbero vissuto.

Lei, figlia del connubio fra penna e carta. Petalo del “m’ama” e quadrifoglio di vita.

Sorella di sorrisi e ladra di baci.

Ne scrisse.

Spargendo calligrafia fra mente e palpito.  Concimandosi di fortuna e sorridendo furtiva.

Volle andare a fondo.

Orgasmando sensazioni a colpi di scrittura.

Bramò di scoprire dove originassero umiltà e garbatezza, dignità ed elevatezza d’animo. E si chiese se esistesse cuore talmente grande da esserne dimora naturale.

Lo trovò nei suoi occhi, quel cuore.

Lo respirò nella loro stanchezza, mai schiava della disillusione. Lo percepì nella dolcezza delle forme allungate.

Stoiche compagne di percorso.

Ne colse intensità di contenuto e sostanza ingenita, arcaica, preziosa eredità di affetti funambolati sulle corde del tempo.

Vertigine d’Amore tatuata sull’essere.

Ne lesse dolore, onda marina e brucior di sale a fil di guance. Ne attraversò la trasparenza disarmante, pura, incontaminata.

Provò a descriverla, quella limpidezza oculare, seppur nel timor di non posseder lemma gentil a tal punto da non sciuparne l’essenza.

Vi entrò in punta di piedi in quel modo di guardare struggente ed appassionato, in quella capacità intrinseca di scrutare l’universo sconfinando da sè e posandosi delicatamente sulla realtà con fare perspicuo e benevolo.

Ne apprese mille forme, adagiate fisse nei vuoti sognanti, plasmate a scritture ruggenti e disorientate dal rimbombo dell’Amore.

Ne seguì le diafane inclinazioni, di sfumatura lunare, or trasognate, or nostalgiche, or affabilmente ridenti.

Mai menzognere.

Mai iraconde.

Di sana coscienza, impavide, in una sorta d’atavico legame con la simbologia animale, che nell’immagine leonina incorona il proprio re, simbolo di coraggio e potenza.

Integro, leale e magnanimo.

Munifico.

D’istinto protettore e portamento nobile, giunse alla vittoria arginando lacrime.

Forza proverbiale di sentimento e ragione.

Istinto di vita a cui abbandonarsi nel tempo.

Vezzeggiandosi la pelle e combaciandosi i contorni.

Appiccicandosi.

Anelanti e congruenti.

Imparandosi i battiti, socchiudendo gli occhi e scrutando orizzonti.

Rimusicando vita a suon d’istanti.

Intersecandosi ed amandosi infiniti.

Con fierezza di sguardi e criniera al vento.