Ho visto un uomo raccoglier cicoria selvatica.

Incurvato su se stesso, sguardo al terreno e schiena al sole, pettinato dal vento e cullato dal tempo dolce della vecchiaia.

L’ho osservato come si guardano le sorprese, come fosse quel magico istante che ne precede lo scartarle. Ho percepito la stessa gioia che accompagna lo strappar della carta, che si dice porti fortuna romperla così, ne ho sentito l’euforia dello strappo nel suo “Buongiorno!”, offertomi a voce calda, di toni tanto bassi quanto profondi, che a volerlo disegnare avrei rappresentato la fiducia.

Ne ho inspirato l’anima densa, in un pomeriggio d’inizio autunno in cui Settembre ed Ottobre sembrano danzare e baciarsi, illuminando di bellezza la campagna e pennellandola di mille colori, intrecciandosi come fossero amanti, pronti ad accoglier nel loro grembo la soave danza di foglie ramate.

Ho rimembrato gentilezza in quel saluto, una garbatezza antica, piena, pulsante. Una dignità d’altri tempi, quella delle strette di mano, nella quale desiar d’aver concesso il privilegio di lavarcisi ogni giorno, leggendone la delicatezza del sole appena salito all’azzurro, nella forza dei suoi riflessi nei fossi, nel suo calore energico e nella sua dolcezza paterna, magnanima nel far spazio alla luna nel cielo, amandola, rincorrendola ogni giorno fino ad eclissarla, in un ciclo d’Amore infinito.

Canta libertà, la natura, strimpella fili d’erba sugli argini come corde di chitarra, soffiando sulle foglie come fossero armoniche.

Una sinfonia.

Imparai il concetto di libertà da mio padre ch’ero piccina.

Lo assaporai liberarado i miei due canarini e lasciandoli svolazzare per casa. Lui mi lasciò fare, spiegandomi che poi, però, avrei dovuto rimetterli nella loro gabbietta, dove in realtà rientrarono senza problemi, poiché, essendo nati in cattività, nel mondo esterno avrebbero vissuto ben poco. Mi accontentai di farli svolazzare di tanto in tanto fra le mura domestiche, imparando ben presto che la libertà va coltivata da piccoli. Collaborammo al loro accudimento, io e mio padre, unendoci in due gesti. Lui si assicurò che avessero sempre a disposizione un osso di seppia, a me fu concesso d’imparare a raccoglier felicità, strappando cicoria nei campi da portar loro in dono. Nell’entusiasmo del battito d’ali, nel gesto di porgliela, colsi il senso primo dell’altruismo.

E sperimentai che per sentirsi scoppiare il cuore basta ben poco.

Ho partorito due pargoli. Un sogno pensante ed uno spirito libero con la pelle intorno. Li ho messi al mondo a bordo nuvole, quattro spinte decise in tre giri di quadrante. Stesso periodo gestazionale, stesso giorno della settimana, stesso ginecologo di turno, stesso peso, stessa stanza, stesso letto.

Stesso azzurro oculare.

Stessa tendenza materna a viver su due mondi. Che se cascano ci si sposta.

Vedi un po’ le coincidenze che scherzi fanno. Ti scovano il tallone d’Achille e gli danno vita.

Raddoppiandolo.

Più che due piccioni con una fava, tre storditi in un salto generazionale.

Ma va bene così.

Telefonami.

Telefonami tra vent’anni e dimmelo, dimmelo se sarò stata in grado di spiegare ai miei figli come ci si piega nei prati, dimmi se avrò saputo far sì che i loro sguardi sappiano perdersi nelle curvature delle schiene al sole e se le loro orecchie saranno capaci di udire la musicalità dei saluti fra generazioni lontane.

Dimmelo tu, Amore poeta, se avrò saputo donargli le stesse carezze che meritano i libri, se sarò riuscita ad avvolgerli nel profumo che emanano, quella fragranza cartacea mutevole nel tempo e d’intrinseca sostanza. Spiegami ora, come posso insegnar loro a carpir l’anima di un albero dalle stesse pagine che andrebbero amate, rispettate, annusate e sfogliate con cura e delicatezza estreme.

Se avrò saputo radicarne le radici a terra pur dotandoli d’ali.

Raccontami, osservandoli, se avranno imparato a preparar colazioni di latte e succo di luna, girando due cucchiaini di zucchero con un raggio di sole ed una coda di cometa. Se saranno ospitali con gli amici a tal punto, da condividerne una cena cucinando lealtà e servendo sorrisi.

Ci hai mai provato, amico sognatore, a raccoglier sorrisi?

Si trovano ovunque, sai?

Li puoi scovare a bordo conchiglia sulla battigia, in un filo d’erba troppo cresciuto o nella forma di un sentiero di campagna.

Ci si può addobbare, di sorrisi, cucendoseli addosso senza abbondarne come lo stolto ma custodendone in tasca un paio, per ogni momento speciale.

Perché la vita, è, speciale.

E sarai tu, a sussurrarmelo, se avrò saputo crescere una donna ed un uomo che di tal specialità avranno fatto tesoro. Se avrò colto per loro cicoria selvatica a sufficienza, nutrendone la mente senza intrappolarne le idee. Se sarò stata in grado di tenerne i pensieri lontani dalla cattività e vicini al vento, liberi di vagare, danzare ed aprirsi al mondo, senza gabbie ma orizzonti, con mille forme e sfumature.

Se sapranno far sì che il poco sia molto e che il loro cuore arrivi a scoppiare per un nonnulla, unendo gesti e saziando anime.

Oh sognatore, mio paroliere, tu sarai l’unico che me lo potrà dire, che lo saprà fare in un certo modo.

Quel modo.

E lo farà, vestendosi di vocaboli.

Perché se a quei figlioli, che in un certo senso sono un po’ anche tuoi, non avrò saputo spiegare che il sapere non si trova solo fra i libri, che la vita sul campo conta davvero, che la felicità va raccolta pezzo per pezzo e che l’oro in tasca, senza sorrisi trasmuta in ferro, se non sarò riuscita a far capire loro che le parole hanno un peso, che andrebbero pronunciate a volo di farlalla nell’offesa ed allineate, nel complimento, come elefanti su un filo unico e se non avrò coniugato a libertà, garbo e dolcezza la loro inclinazione all’Amare, se non avrò fatto tutto questo, allora avrò fallito.